Attualità

Il compenso dietro al bancone, e il prezzo dentro una tazzina

Chi pensa che pagare un euro e trenta per un caffè sia davvero troppo dovrebbe sapere che il prezzo di quella tazzina costringe oggi milioni di lavoratori ad esercitare solo per coprire il costo delle spese.

Da ormai più di dieci anni discutiamo e dibattiamo sul prezzo di un espresso al bar. Sembra che la tematica ruoti attorno a un braccio di ferro perpetuo fra esercenti ed istituzioni: la tesi dei primi è che il caffè oggi, per come servito, è assolutamente non bilanciato nel rapporto qualità-prezzo mentre il pensiero delle istituzioni fa leva sul luogo comune della materia prima che, in Italia, per motivi storico-culturali, si è pagata sempre una certa cifra e dunque deve essere considerata un bene di prima necessità, quindi costare poco per tutti coloro che ne hanno bisogno o voglia.

Esiste un prezzo giusto per quanto riguarda il caffè?


Tagliamo subito la testa al toro. No, non esiste, non per tutti almeno. La soluzione comune adottata fino a qui è quella di un prezzo più o meno nazionale che si aggira intorno agli € 1,15 – 1,30 euro, laddove in alcuni comuni un espresso di paga anche 0,70 cent e in certe piazze turistiche e rinomate costa invece € 2,50. Ad ogni modo, generalmente una tazza al bar si paga 1 euro e, quando questo non avviene, almeno appunto che ci si trovi in Piazza della Scala a Milano o di Fronte all’Arco di Trionfo a Roma, il cliente esce piuttosto scontento dal bar, caffetteria o ristorante che sia. Il mito comune dell’espresso pagato moneta tonda è entrato ormai nell’immaginario comune di chiunque consumi caffè abitualmente; si faccia attenzione qui, non ci riferiamo agli esperti, e nemmeno ai veri appassionati di caffè bensì, a tutte le persone di comune e normale amministrazione che nella vita si occupano di tutt’altro e che, nella maggior parte dei casi, consumano caffè al bancone del bar prima di entrare in ufficio oppure durante una pausa dal lavoro.


Quindi, facciamo riferimento alla stragrande maggioranza dei consumatori di caffè, quelli abituali. Sono proprio loro ad aver il monopolio filosofico del caffè e ad aver dettato, assolutamente volenti, le basi dell’economia di questa materia prima in Italia. Questo perché il caffè non può salire di prezzo se la maggior parte non è d’accordo. Il ragionamento più pericoloso che si fa di fronte ai cambiamenti è che si è sempre fatto così, quindi perché dovremmo cambiare? Se alziamo i prezzi del caffè, cosa cambierà davvero? Ci risponde Andrea Antonelli, CEO di Street Coffee School: «Non ho una ricetta valida per tutti, però ipotizzo che a fronte di un aumento il cliente si aspetti qualcosa perché noi sappiamo che pagare 1 euro un espresso è troppo poco, ma non possiamo permetterci di alzare di troppo i prezzi se non siamo in grado di fornire poi ai clienti un servizio che rispetti la materia e il lavoro fornito»

Adesso un ragionamento ancora più scomodo: in Italia abbiamo l’Espresso meno caro d’Europa (in Nord Europa il costo di un caffè è € 2,50-3,00), eppure esistono tazzine dalla vastissima offerta, complesse e diversificate, che includono miscele di alta qualità, eccellenza e proposte eterogenee per la quale quel famoso euro tondo tondo che paghiamo al bar non è certamente sostenibile. Quindi, che senso ha munirci di cucchiaini biodegradabili, macchine che filtrano e riciclano l’acqua o anche cialde per caffè casalingo che possono essere gettate nell’umido perché fatte al 100% di materiali da compost, se poi di fronte al tema della sostenibilità dei prezzi storciamo il naso e facciamo finta di non vedere come l’espresso in Italia con il suo relativo prezzo sta in realtà mettendo in ginocchio l’intera filiera del caffè?

Il nocciolo della questione: chi prepara il caffè, sa cosa sta facendo?


Volendo fare un passo di lato dalla irta questione del prezzo e del costo in termini di sostenibilità, appare doveroso soffermarsi su tutt’altra tematica, collaterale e strettamente connessa alla prima, ma ancora più celata e ritenuta una tabù sociale da moltissimi. Gli imprenditori, gli esercenti o anche semplicemente i titolari dei bar (che già di loro natura non sono più solamente appassionati di caffè, come accadeva trenta anni fa, ma comuni datori di lavoro) lamentano di non trovare personale. C’è una frustrazione generale e accresciuta dalla pandemia laddove nelle caffetterie non si riesce a quanto pare a colmare alla richiesta di forza lavoro. Anche qui, facciamo immediatamente una piccola considerazione condivisa dagli esperti: un barista non dovrebbe solo limitarsi a preparare caffè tramite procedure ormai alienate senza neanche conoscere la materia prima che sta lavorando, ma dovrebbe poter essere in grado di fornire al cliente una vera esperienza sensoriale quando prende parte al rituale dell’espresso. Bere caffè di scarsa qualità nei cinque minuti di pausa al bar è diventato un gesto ormai meccanico tanto quanto servirlo senza avere la minima idea di che cosa si sta facendo. E la colpa di tutto ciò, di chi è?

Sembrerà un attacco in piena regola verso la categoria, ma la colpa è di tutti. In primo luogo, di migliaia di esercenti. Sempre più spesso sentiamo di testimonianze che parlano di sfruttamento, orari doppi e mal retribuiti, giorni liberi inesistenti, tirocinanti usati per coprire le ore di punta e dipendenti costretti a lavorare in condizione di totale precarietà o a chiamata. Di fronte a queste voci, la lamentela dei datori di lavoro che non trovano baristi appare davvero ridicola. Se il proprietario del bar o della caffetteria è il primo a fare il gradasso nel giardino di casa sua, oppure non è onesto nella distribuzione del lavoro e lascia che i dipendenti lavori in condizioni che potremmo definire disumane – con la certezza di non esagerare affatto – come può pretendere che i propri lavoratori facciano per il cliente ciò che lui stesso non ha mai nemmeno pensato di fare per i suoi dipendenti?

Il lavoro dietro al bancone è ancora asservito al torrefattore


Cercano tutti dei baristi da sfruttare, dei ragazzi e delle ragazze giovani che abbiano bisogno di arrivare a fine mese e che sono tristemente pronti/e a tutto per saltare dietro al bancone e lavorare 16-17 ore al giorno pur di mettere da parte qualcosa. Qui, la colpa scinde dalle responsabilità e fa riferimento al contesto storico di estrema povertà economica e intellettuale in cui la gioventù rischierà di sprofondare molto rapidamente se non dovesse arrivare uno scossone dalle fondamenta del sistema. Perché d’altronde, se un individuo deve lavorare 16 ore di fila, in una condizione di stress e nervosismo continuo, senza la possibilità di aumento e il più delle volte senza nemmeno un contratto a norma di legge, avrà mai il tempo e la voglia di studiare la materia prima? Se non le viene fatta formazione a dovere, se non la si inserisce in un’ottica di miglioramento continuo delle mansioni ma anche delle possibilità, come possiamo aspettarci che questa persona sia soddisfatta del proprio lavoro al punto tale da volerne sapere di più, ma anche da voler imparare veramente che cos’è il caffè e come va servito? Non scherziamo.

Qui parliamo di persone che già dal primo giorno di lavoro hanno visto i loro diritti essere calpestati da orari massacranti e zero ore di formazione, figuriamoci se davvero si può chiedere loro di accompagnarci in un’esperienza sensoriale ad hoc. E la colpa di tutto ciò non è naturalmente imputabile al tirocinante che nell’ora di punta di divide in quattro pur di servire i caffè a tutti, ma come sempre alla persona che avrebbe dovuto accompagnarlo in un percorso di apprendimento e di formazione. Ci dà il suo parere sempre Andrea Antonelli, ben consapevole di quanto siano disastrose le condizioni di molti lavoratori del settore: «Le torrefazioni non vogliono aggiungere un aumento al costo del caffè, perché per loro sarebbe una mossa solo in perdita. Al tempo stesso non c’è comunicazione tra materia prima e chi la compra, e infine non c’è alcuna possibilità di sanare quei divari lavorativi fra datore e dipendente. Se non aumenta la comunicazione fra esercenti e torrefazioni, fra baristi e titolari non ci sarà mai una soluzione. Il barista ad oggi è l’ultimo ingranaggio di un’intera macchina totalmente asservita al torrefattore».

Tutte queste cose appena dette restituiscono un quadro agghiacciante del settore della ristorazione e dei bar. Da Nord a Sud, dalle grandi città ai piccoli paesini, le condizioni offerte ai giovani alle prime esperienze (ma anche a professionisti con decenni di esperienza alle volte) sono fuori da ogni perimetro di legalità. Il barista oggi è una delle figure più sfruttate d’Italia e il lavoro nero – o grigio, quando parliamo di conteggi ore che non corrispondono all’effettivo ammonto delle ore lavorate- dilaga su e giù dalla penisola. Senza lasciare scampo a chi magari avrebbe anche la stoffa o la passione necessaria per diventare un gran barista, ma le sue ali dell’apprendimento vengono strappate da una realtà che sta marcendo e, nella sua disfatta, trascina con sé tutto quel che le capita a tiro.


Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, chi sta dietro al bancone sa davvero quel che sta facendo? No, non lo sa. E non vuole saperlo, perché per quel che viene pagato non ha giustamente alcuna intenzione di fare il miglio in più necessario per passare da lavoratore a barista. D’altro canto, però, il datore di lavoro che chiude un occhio e lascia la situazione così com’è, senza preoccuparsi nemmeno lontanamente del fatto che i suoi clienti bevono caffè scadente servito in modo mediocre da giovani sottopagati, può davvero considerarsi un buon titolare? Ditecelo voi.