di Mariafrancesca Natale
L’altro giorno ero al bar a bere un espresso e ascoltavo le chiacchiere di quelle persone con le quali, pur non conoscendole affatto, condivido lo spazio del bancone, giusto il tempo di un caffè. Molto spesso mi capita di sentire, proprio in queste occasioni, la frase “Ci vuole poco, neanche, o giusto, il costo di un caffè”.
Ebbene, questa espressione, che prima mi infastidiva parecchio, viene impiegata spessissimo e utilizza il caffè come metro di giudizio economico di qualcosa di veramente vantaggioso e abbordabile. A Napoli diciamo “una fesseria” per indicare una sciocchezza, ma il caffè non è una fesseria e in realtà questo modo di parlare non è affatto innocuo, almeno non per chi ama il caffè e quello che c’è dietro.
Altrettante volte mi è capitato di sentire l’espressione “Un caffè non si nega a nessuno!”, per cui quella stessa tazzina, prima svilita, la si eleva da un punto di vista morale, sino a farle acquisire un valore immateriale: l’oro nero che diventa diritto inalienabile.
Ecco qui, un bel paradosso servito dal consumatore a tutti gli addetti al settore, che da tanto tempo cercano di fare cultura, sottolineando sovente la necessità di portare il prezzo della tazzina ad un giusto compromesso tra costi di filiera e tasca del consumatore.
Ma siamo certi che ci si focalizzi sul serio sul consumatore o semplicemente si pretende da lui qualcosa che ancora non può comprende?
Intendiamoci, condivido pienamente la necessità di rompere il velo di Maya che sembra celare agli occhi del compratore la raffinatezza e il valore sensoriale ed esperienziale di questo prodotto, ma dubito fortemente che la strada intrapresa sino ad ora sia quella giusta.
Di certo le intenzioni sono state le migliori possibili ma, probabilmente, quello che è stato percepito è: “Caro consumatore, quello che hai bevuto sino ad ora, il caffè che ha accompagnato tutti momenti della tua vita, il caffè del mattino, quello della pausa al lavoro, quello per restare svegli fino a tarda notte, quello per concentrati di più durante un esame, quello per discutere di cose serie o futili, quello della mamma, o l’ultimo della giornata, è la più grande schifezza che si possa immaginare e tu, consumatore, sino ad ora non hai capito nulla!”.
Cavoli che botta.
Come degustatrice di caffè posso dire che, sì, bisogna dire che certi caffè sono una vera “ciofeca”, ma come formatrice ed insegnate posso anche affermare che il metodo più fallimentare, per trasmettere una conoscenza, è quello che fa sentire il destinatario di questo processo un incompetente e, peggio ancora, quello che lo “spoglia” di quelle sicurezze personali, che quasi sempre non sono oggetto di contrattazione aprioristica e avulsa dall’esperienza di vita vissuta. Quantunque si voglia attivare processi di conoscenza, si deve assolutamente tener conto di quello che è il bagaglio personale del discente. Nel caso del consumatore di caffè, privarlo dei suoi riferimenti sensoriali, servendogli il miglior caffè in assoluto o comunque un caffè estremamente lontano dal suo vissuto quotidiano, è il modo più probabile per fallire l’impresa.
Sarebbe invece, a mio modesto parere, più auspicabile un “accompagnamento gentile”, fatto di piccoli cambiamenti: macchine efficienti e pulite, baristi formati, materie prime lavorate nel modo giusto, non il migliore auspicabile da rigide regole, stabilite da altrettanto rigidi protocolli, che poco tengono conto dell’esperienza ormai acquisita dal consumatore italiano, rispetto al prodotto caffè.
Insomma, piccole facilitazioni per un acquirente che attualmente vive una sorta di medioevo rispetto a questo straordinario prodotto.
Ci sono poi altri aspetti da considerare: non è forse vero che il caffè più commerciato al mondo è di scarsa qualità?
Mi spiego meglio. Attualmente il mercato mondiale non è in grado di supportare la richiesta diffusa e generalizzata di tazzine di alta qualità e non è inoltre possibile ipotizzare un’inversione di rotta. Le piantagioni intensive sono un business che l’uomo non contrarrà, ma che anzi amplierà al fine di soddisfare una domanda che non sembra assolutamente diminuire. Per intenderci, se per assurdo domani venti o trenta milioni di italiani entrassero nel loro bar di fiducia e chiedessero un caffè di prima qualità, non solo nessuna caffetteria sarebbe in grado di soddisfarli testé ma quella domanda non potrebbe essere soddisfatta neanche all’indomani, o dopo un mese, o un anno, perché il caffè di alta qualità è una risorsa scarsamente disponibile, e ciò non solo per la poca domanda ma anche e soprattutto per l’effettiva scarsa disponibilità di caffè verde coltivato, processato, selezionato, stoccato, tostato ed estratto in maniera da assicurare un’alta qualità in tazza. Sto facendo economia spicciola, me ne rondo conto, ma credo di essere assolutamente concreta.
Quindi cosa fare?
La risposta è sempre la stessa: cambiare tutto gentilmente, fare il possibile per facilitare in chi non può, o non vuole “sentire”, la percezione di lievi sfumature nel proprio quotidiano. Il caffè di tutti i giorni si trasforma lentamente e l’esperienza di ognuno si arricchisce di piccole scoperte che poi fanno un ’enorme differenza.
Inoltre, si potrebbe smettere di pretendere che le persone debbano, o possano, scegliere sempre e solo la tazzina “d’oro” perché non stiamo facendo propaganda ma cultura, e la cultura è frutto di un processo lento e consapevole, soprattutto coerente con la realtà esterna.
In ogni filiera esistono fasce di prodotto. Pensiamo al modo del vino che è anni luce avanti. Nonostante una cultura di base molto più diffusa nel consumatore, il prodotto più bevuto e richiesto al mondo continua ad essere il Prosecco!
Un ulteriore aspetto, non meno importante, ha a che fare con quello che per ciascuno è il caffè. Tutti i consumatori, o quasi, concordano sul fatto che questa bevanda debba costare poco e che debba essere offerta a chiunque, indistintamente, tanto che se non puoi permettertela, puoi contare, non dappertutto, sul caffè sospeso. Che miracolo di compartecipazione!
Ma perché in ciascuno è così radicata questa idea di condivisione quando si parla di caffè?
La risposta è per me semplice…
Al tempo del suo esordio in Italia, il caffè era un affare da nobili e non era assolutamente consentito a tutti di berne. A Napoli, ad esempio, il caffè diventa bevanda cittadina quasi 50 anni dopo dalla sua circolazione nei palazzi nobiliari e negli ambienti borghesi. Prima si diffonde negli ambienti popolari grazie ai venditori ambulanti e poi entra in tutte le case con l’invenzione della Cuccuma, la “Napoletana” di Morize grazie al basso costo dei materiali di produzione.
Il caffè è stato quindi, un prodotto per tanto tempo agognato, quasi come il pane, che diviene una conquista del popolo e che probabilmente, come questo genere di conquiste, non è così facile da rimaneggiare. Il caffè in certi luoghi, non è abitudine, ma cerimonia come ad esempio lo è il tè in Giappone: ci sono strumenti quasi sacri; in ogni casa c’è un “officiante”; ci sono trucchi e segreti per riuscire meglio.
Tanti, troppi, aspetti da considerare e da trattare come se si stesse avendo a che fare con la porcellana.
Si potrebbe, quindi, prima ancora che pretendere quello che il consumatore percepisce come un “immotivato” aumento della tazzina, far leva sul senso di ingiustizia che è impresso in ognuno di noi, a meno che voi non siate nobili da generazioni. Potrebbe essere questa un’altra molla da innescare: mostrare diffusamente come tra il farmer e il barista, vi sia un mondo fatto di speculazione e marketing che lascia ben poco spazio finanche alla dignità di chi, in fin dei conti, ci consente di “accedere al” e “consumare il” nostro tanto amato caffè .
Per concludere questa personale riflessione, inviterei gli addetti al settore a fare i conti con quella che è la realtà storica: non possiamo credere che in tutta Italia si possa far cambiare l’idea che si ha del caffè in unico modo, perché la storia di questa bevanda è diversa finanche tra due paeselli confinanti.
Un buon inizio potrebbe essere quello di concentrarsi più sinceramente sul consumatore e su come egli percepisce “l’oro nero” che non è , soprattutto dove se ne consuma di più, un semplice prodotto. Come dice un caro amico, il caffè è un atto agricolo ma direi che è soprattutto un fatto sociale.
Sarebbe così terribile accettare che ognuno ha un gusto definito e che esistono qualità differenti di prodotto? Possono queste differenze convivere in una stessa carta dei caffè?
Concettualmente e ideologicamente, considerando la scarsezza di alcuni prodotti , assolutamente no, ma sempre prendendo in prestito esempi dal mondo del vino, ci sono carte dei vini dai prezzi vari, che contemplano contemporaneamente, vini di pessima qualità e vini invece eccellenti. Anche in questo caso un paradosso che i veri appassionati non possono accettare ma purtroppo, io credo per fortuna, non siamo tutti uguali e ogni settore si sostiene grazie all’eterogeneità dei palati.
Non fermiamoci quindi, ma smettiamo di correre e facciamo un passo alla volta, con rispetto di quella che è stata la storia di questo prodotto sino ad oggi. Le cose cambieranno naturalmente perché, siatene certi, il buono lo si riconosce sempre!
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