Origine

Caffè robusta: quanto ne sappiamo veramente?

La specie robusta è la seconda più commercializzata al mondo dopo l’arabica con circa 70 milioni di sacchi prodotti su un totale a livello globale di 170 milioni complessivi. Scoperta diversi secoli dopo rispetto all’arabica, di questa specie si conosce ancora molto poco e le poche cose che conosciamo non sono nemmeno del tutto corrette ma frutto piuttosto di alcuni preconcetti.

Alla robusta è spesso attribuita una qualità complessivamente più bassa e sentori quali il legno, l’aspro e il tostato/carbonico. In verità queste caratteristiche sono da ricollegare in gran parte a dei caffè di bassa o medio-bassa qualità oppure a degli errori in fase di tostatura. Spesso l’errore che si fa è quello di voler paragonare arabica e robusta come se fossero la stessa cosa, dimenticando quindi proprio la loro differenza fondamentale, ovvero quella di appartenere a due specie diverse della stessa famiglia. Sarebbe come voler paragonare un lupo ad una volpe o un mulo ad un cavallo e di conseguenza pretendere che l’uno e l’altro possano avere prestazioni simili o uguali. Cosa che evidentemente non può accadere. Spesso quindi l’idea che abbiamo della specie robusta deriva da uno standard più basso a livello qualitativo e una maggior tolleranza per i difetti anche nei gradi più alti. Questo perché tra le due specie principali e maggiormente commercializzate, nella robusta l’elemento di maggior interesse è il prezzo più conveniente. Si attribuiscono quindi a questa specie delle caratteristiche che in buona parte dei casi deriva da alcuni difetti primari che si possono comunemente trovare anche in molte varietà commerciali.

L’importanza della selezione e la lavorazione della materia prima



Il metodo di lavorazione di un caffè contribuisce per il 60% nella formazione dei composti aromatici che andranno a comporre la bevanda finale. Questo vale per qualsiasi specie e varietà, di conseguenza la robusta non fa eccezione. Spesso si è portati erroneamente a pensare invece, che la robusta sia caratterizzata da attributi poco interessanti quali l’amaro, il legno e in qualche caso addirittura l’ammuffito. Altro errore abbastanza comune è quello di ritenere la robusta quasi priva di acidità e di avere come unico tratto distintivo positivo un’elevata corposità e, nel caso la si usi per dei blend dedicati all’estrazione con metodo espresso, una maggior cremosità in tazza. L’errore anche qui nasce spesso per la comparazione che si tende a fare con la specie considerata più “nobile”, ovvero l’arabica. È meglio l’arabica della robusta? Come già detto la domanda è mal posta: sono semplicemente diverse. La percezione a livello qualitativo e la miglior reputazione dell’arabica rispetto alla robusta deriva in buona parte da una maggior richiesta della prima rispetto alla seconda e una conseguente maggior cura nelle diverse fasi di lavorazione. A parità di cura e attenzione anche la robusta può presentare acidità più o meno complessa, dolcezza più o meno elevata e amaro più o meno gradevole e intenso.

Le note distintive di un caffè robusta di qualità



Si è da poco concluso presso la Bloom Coffee School il programma di Robusta grading ideato dal Coffee Quality Institute. Un’intera settimana intensiva di corso ed esami che fornisce gli strumenti per poter essere in grado di valutare e distinguere una Fine Robusta, ovvero una robusta di qualità superiore rispetto allo standard commerciale. Il programma prevede numerose prove sensoriali finalizzate alla corretta compilazione di una cupping form dedicata alla robusta. Cosa caratterizza quindi una Fine Robusta? Anzitutto, come per l’arabica, l’assenza di difetti primari nel caffè verde. All’assaggio invece spiccano da un lato la complessità nell’acidità e l’assenza di sentori salmastri, che in una robusta vengono determinati da una maggior presenza di potassio, dall’altro da un’amarezza gradevole e non dominante, che invece viene data da una maggior quantità di acidi clorogenici. Arabica e robusta infatti presentano anche una diversa composizione a livello chimico già a partire dal chicco verde, a cui conseguirà una diversa esperienza dal punto di vista sensoriale. Motivo in più per il quale ha poco senso fare paragoni tra l’una e l’altra.



Robusta o canephora? La chiarezza parte dal nome



L’ambiguità e la scarsa conoscenza che abbiamo della specie robusta parte proprio dal nome che genericamente viene usato per distinguerla dall’arabica. Il nome “robusta” infatti viene usato per definire le proprietà della pianta, più resistente alle malattie e a condizioni climatiche più torride che poco si addicono alla coltivazione di arabica, da cui tra l’altro quest’ultima deriva. Il termine più corretto da usare per definire però l’intera specie sarebbe il suo nome scientifico, ovvero canephora. La robusta infatti tecnicamente rappresenta la varietà più diffusa di canephora e non l’intera specie. L’altra varietà che conosciamo a livello commerciale è quella che deriva dal Congo, la Kouilou, che in Brasile, complice uno storpiamento del nome, è meglio conosciuta come Conilon.

Con un clima in costante cambiamento e le difficoltà che si riscontrano nella coltivazione della specie arabica, una maggior conoscenza della canephora e l’applicazione di standard qualitativi più rigorosi anche per questa specie non potranno che far bene all’intero settore, soprattutto dell’anello più debole della catena, quello dei coltivatori.