Nell’enciclopedia Treccani, alla voce “pubblicità” è possibile leggere “Divulgazione, diffusione tra il pubblico. In particolare, l’insieme di tutti i mezzi e modi usati allo scopo di segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizi, prestazioni di vario genere predisponendo i messaggi ritenuti più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati”.
Questa definizione, per nulla banale, sottintende un preciso scopo a cui la pubblicità stessa attende, ovvero quello di iniziare a far esistere nella mente delle persone una tale “cosa” che si caratterizza per un “come” e che si rivolge a un certo “chi”. Questi tre elementi sono il cuore di ogni messaggio che intenda arrivare a destinazione. Senza uno di essi, infatti, lo stesso messaggio risulterebbe monco di una parte essenziale. Perché? Proviamo ad immaginare una pubblicità che non ci dica cosa ha ad oggetto, limitandosi a dire, ad esempio “se lo compri ti senti felice”. Non specificando l’oggetto del messaggio, lo stesso risulterebbe inefficace. Allo stesso modo, se dal messaggio lanciato non è chiaro capire a chi esso sia rivolto, lo scopo della comunicazione rischierebbe di essere vanificato. Ad esempio, pubblicizzare un medicinale che “ti fa subito sentire meglio” senza però indicare contro quale fastidio esso agisce è come non dire nulla di concreto. Queste due caratteristiche, ovvero il “cosa” e il “chi”, di fatti sono sempre presenti nei messaggi pubblicitari. Quella che molto spesso si dimentica o si omette volontariamente di aggiungere è il “come”.
Il fenomeno ha conosciuto negli anni un sensibile aumento dei casi, ed ha riguardato moltissimi prodotti. Qualche esempio? Lo spot del Parmacotto del 1992, quando Sofia Loren si limitava ad una sola battuta, priva di ogni altra spiegazione, dicendo “E accattateville” (e compratelo!). Anche il celeberrimo Chef Carlo Cracco, ingaggiato dalla San Carlo, arriva ad esclamare alla fine della pubblicità, parlando di patatine in busta “perché in cucina ci vuole audacia” senza in alcun modo argomentare.

Ed ovviamente anche il modo di comunicare il caffè è sensibilmente cambiato negli anni. Tra le pubblicità più belle e ricche di significato ricordo uno spot di Kimbo del 1989 in cui Pippo Baudo esclamava “Cosa c’è di speciale nel caffè kimbo? Le migliori qualità di caffè e la tradizionale tostatura Kimbo” oppure sempre di Kimbo una réclame in cui più volte veniva chiesto ad una ragazza “Posso offriti un caffè?” e lei rispondeva “Dipende dal caffè !”. In questi messaggi c’era il significato di una scelta, fatta di selezione della materia prima, stile di tostatura e consapevolezza di ciò che si beveva. Chi scriveva i testi intendeva comunicare a chi li vedeva in Tv la qualità di ciò che era proposto. Oggi, la stessa azienda in uno dei suoi ultimi spot descrive il suo prodotto con lo slogan “Una tazza di crema, una tazza di Napoli”.
Anche Lavazza, ai tempi di Nino Manfredi, metteva nella sue pubblicità, insieme alla simpatia ed alla genialità del comico, dei messaggi precisi. Uno dei più noti, certamente era “Il caffè è un piacere. Se non è buono che piacere è?”. Oggi le cose sono cambiate, e in una pubblicità che sottolinea l’attenzione all’ambiente si afferma “Qualità zero, gusto zero, stile zero, aroma zero. Zero impatto di anidride carbonica”. E’ evidente che si tratti di una provocazione che ha lo scopo di sottolineare in realtà che tutte quelle qualità del prodotto, sottintese, sono presenti ma senza impattare sull’ambiente. Tuttavia il protagonista del messaggio non è più il prodotto in sé, ma l’ambiente.

Esistono eccezioni alla regola, ne è un esempio Illy Caffè, che negli anni ’80 usciva con una pubblicità in cui si diceva “A: Certo che il caffè del bar… : Che sia fatto al bar non è sufficiente. Invece un Illy Caffè è sempre buono, preparato da un barista che non bada a spese per soddisfare i suoi clienti. A: Hai ragione! Un aroma così vale proprio quattro passi in più”. Un messaggio per nulla banale, che sottintendeva la necessità di pagare la qualità e di doversela anche andare a cercare. L’eccezione sta nel fatto che ancora oggi Illy inserisce nelle sue réclame frasi come “La felicità è un percorso che inizia la dove cresce il miglior caffè che la natura possa offrire”. Cambiano i luoghi dei messaggi, dunque, ma non il senso profondo, che tende a sottolineare la qualità del prodotto.
Sulla stessa linea anche Caffè HAG, che da sempre pone al centro del suo slogan il tema della caffeina. Prima era “A: Meglio buoni e pochi. B: Meglio buoni e quanti ne vuoi. Hag, la parte più buona del caffè”. E a distanza di anni rimane “Hag è stata una bella scoperta. Con Hag il caffè me lo godo anche a quest’ora (sera)”. Messaggio chiaro dunque: buono e decaffeinato, quindi puoi berne quanti ne vuoi anche la sera.

Sensibilmente cambiato, invece, complice anche la rivoluzione del mercato grazie all’avvento del mono porzionato, il messaggio di Nescafè. Se anni addietro era “Caffè Nescafè, ti porta l’aroma e il calore di paesi lontani”, evidenziando l’esperienza culturale che si nascondeva dietro una tazza di caffè, oggi siamo arrivati a “Incredibile, indimenticabile, Nespresso what else?”, dando così la centralità all’eccezionalità del prodotto a prescindere.
Minimal l’impatto testuale della pubblicità di Starbucks, che invece punta tutto sulla computer grafica e solo alla fine delle potenti immagini lanciate sullo schermo saluta il pubblico con “Starbucks, it starts with you”, evidenziando più che il “come” del prodotto “in che modo” esso entra nelle nostre giornate sin dal mattino.

In linea con l’ambientalismo anche le scelte di Caffè Borbone nei suoi ultimi spot, che però fa precedere allo slogan “La scelta giusta per un mondo migliore” un’esilarante battuta interrotta “Anche perché se non era buono…”. Il suo è un messaggio di salvaguardia dell’ambiente senza rinunciare al gusto, tuttavia non meglio specificato. Diversamente in una precedente pubblicità durante un siparietto irresistibile affidato a un gruppo di giovani comici, tra le righe affermava “Il sapore della tradizione… La tostatura della miscela robusta, la sinuosità della consistenza cremosa, il gusto deciso e inconfondibile del caffè napoletano, la tradizione, sono questi gli ingredienti del mio caffè. Ma quanto è buono ‘stu ‘cafè, ma quanto è bello il mio caffè!”. Trattavasi di un messaggio molto dettagliato che faceva riferimento a specie botanica, stile di tostatura e profilo gustativo.

L’indagine, tutt’altro che esaurita, mette in evidenza una nuova era comunicativa, in cui il consumatore non è più semplicemente invogliato a comprare un prodotto per le qualità intrinseche (es. il famoso fustino di Dixan o la merendina ai 5 cereali della kinder) ma piuttosto a riflettere sul significato di quell’acquisto ed all’impatto sociale ed ambientale dello stesso. Per farlo, le aziende tendono ad affidarsi sempre più spesso a testimonial dal largo consenso. Così, attori e presentatori di mezza età vengono gradualmente sostituiti da ragazzi e ragazze giovani e belle, che spopolano sui social network. Spesso e volentieri trattasi di cantanti, influencer, attori o chef social. Talvolta questi testimonial rimangono addirittura muti o quasi, lasciando alle immagini il compito di parlare, ed alla musica quello di suggestionare. Così, l’era del “cosa, come, chi” cede inesorabilmente il passo alla logica dei “like” che assomigliano sempre di più ad un voto e sempre meno a un giudizio.