Siamo tornati a quel faticoso periodo dell’anno in cui marciano disperate le campagne di reclutamento per trovare ragazzi/e che, per la stagione estiva, dovrebbero coprire i buchi e le falle di un sistema turistico quasi al collasso. Baristi e tuttofare dietro al bancone mancano all’appello. Gli imprenditori si accorgono che non hanno abbastanza personale per coprire tutti gli arrivi turistici che arriveranno a giugno.
Finite definitivamente le restrizioni Covid, il turismo ha ripreso a pieno regime gli standard del passato, e il periodo di stasi dovuto alla pandemia sembra aver quintuplicato la domanda; i ristoratori si trovano nella posizione di quelli che aspettano l’inizio delle resse di fronte ai loro tavoli, e nessuno pronto per far accomodare gli ospiti. Insomma, è tutto pronto, tranne i lavoratori. Tutti sono alla ricerca di nuovo personale, ne hanno un gran bisogno e lo cercano in tutta fretta. Sui social è già iniziato il flusso delle lamentele e l’eterno dibattito fra datori e salariati, spuntano su ogni piattaforma insegne e nuove offerte, più o meno disperate, per la ricerca di personale.
Lo scontro è sempre lo stesso: una generazione passata e una che fa i conti con il presente
Non siamo qui per raccontarcela: da un lato, ci sono tutti quelli che hanno iniziato a lavorare cinquant’anni fa, si sono dedicati alla cucina fin dall’adolescenza e hanno accettato anche le mansioni più miserabili pur di fare parte della realtà in cui sognavano d’inserirsi. In alcuni casi, questi ce l’hanno fatta. Hanno costruito il loro futuro, e gran parte della loro giovinezza l’hanno trascorsa dietro al bancone. Però, nel corso di cinquant’anni, sono anche rusciti a mettere da parte qualcosa. La loro esperienza sottopagata – o del tutto non pagata – gli ha permesso di farsi un nome, una storia, fissare nuovi obiettivi da raggiungere. Stiamo parlando di tutta quella generazione che, raggiunta una certa stabilità, suggerisce alle nuove leve che fare la gavetta significa guadagnarsi in un futuro. Una sorta di percorso fondamentale, un cammino già tracciato e uno step da cui prescinde il proprio lavoro nella ristorazione, nella caffetteria o nel bar. Storia vecchi insomma, di scontri generazionali in corso da una vita. Forse però stavolta i tempi son cambiati sul serio, c’è da dire.
Sull’altra sponda, una grande mandria di persone più o meno alle prime armi, più o meno felici di avvicinarsi a questa professione. Ebbene sì, per tanti il lavoro dietro al bancone o di fianco ai tavoli non è altro che un momento fugace fra uno studio e l’altro, un lavoretto come tanti per guadagnare qualche soldo. La passione verso un’attività come quella della ristorazione e della caffetteria è qualcosa che si può insegnare e che cresce nel tempo, ma deve avere delle solide basi per potersi affermare. Altrimenti è solo un lavoretto, un ripiego estivo e nulla più. Queste nuove generazioni, di fronte al lavoro da svolgere dietro al bancone, si dividono quindi fondamentalmente in due macro categorie: una ha bisogno di avere solamente i soldi per pagarsi spese e affitto, l’altra vorrebbe intraprendere un percorso formativo per diventare un giorno un gran maestro barista. È una scelta sentimentale, dovuta alla storia dei singoli individui ma soprattutto all’emozione che qualcuno prova stando a contatto con le materie prime e con il pubblico.
Il problema è che il mercato del lavoro non fa eccezioni sentimentali, non conosce le emozioni dei singoli individui: che il giovane di turno abbia bisogno di un lavoretto estivo o che consideri il bancone del Bar Sport un trampolino di lancio per la sua carriera, i termini contrattuali non cambiano. Né cambiano le disponibilità dei datori di lavoro, la paga a fine mese, le mansioni da svolgere e la possibilità (o non possibilità, in questo caso), di crescere professionalmente. “È un discorso complesso – dice Dario Fociani del Caffè Faro e vincitore come miglior Barista agli ultimi Barawards – perché a monte c’è un problema contrattuale, fatto di contratti di lavoro ormai concettualmente vecchi che fanno pesare sul datore di lavoro dei costi onerosi ed è impossibile che questi contratti possano rivoluzionarsi senza una svolta politica. Senza che la politica italiana apporti dei cambiamenti a questa situazione, è molto difficile spiegare ai dipendenti che uno stipendio più alto impone dei costi maggiori per l’imprenditore”.

Il dialogo mancante fra datori di lavoro e lavoratori
Consapevoli che alle volte i lavoratori vedono in quell’occupazione solo un ripiego temporaneo, alcuni imprenditori si sono rintanati nella loro grotta di finta inconsapevolezza e furbizia. Molti datori di lavoro formulano ancora oggi contratti di scarsa validità legale, propongono orari alla soglia della disumanità e stimolano condizioni di lavoro alla stregua dello sfruttamento. Sono realtà lavorative che gli abituali avventori dei bar hanno sotto al naso tutti i giorni ma di cui più di tanto non si preoccupano: il loro interesse per chi ci serve il caffè inizia e finisce nel momento in cui vengono serviti, e guai a pagarlo caro! Se qualcuno chiedesse ad un consumatore abituale di una caffetteria, se trova giusta la paga media di un barista, immediatamente direbbe di no, non è equa e non è giusta. Che i baristi lavorino tanto e vengano pagati poco, è un fatto di dominio pubblico. A riguardo interviene anche Carlos Bitencourt Founder & Managing Director di Cafezal Specialty Coffee, che tra poco si espanderà a Roma e Venezia: “Mentre i professionisti devono e meritano di essere valorizzati sullo stipendio netto che percepiscono, i ristoratori si trovano in difficoltà per quanto riguarda le tasse. In Italia siamo arrivati ad un punto dove le tasse sul personale sono troppo alte, perciò i ristoratori non hanno altra soluzione se non quella di alzare i prezzi e al tempo stesso abbassare gli stipendi. È un circolo improduttivo.”

Oggi un imprenditore deve spendere davvero molto per formare un lavoratore, perché quest’ultimo deve poter apprendere, crescere e imparare ad avere dimestichezza con gli strumenti ma anche con l’imprevedibilità della vita. E, oltretutto, il datore di lavoro, una volta che la persona sarà capace di lavorare in autonomia, avrà anche tutto l’interesse a tenersela nel proprio locale, perché l’ha formata apposta per quel lavoro e quelle mansioni. Insomma, ha investito tempo, denaro ed energie per la crescita professionale ma anche umana di un individuo, e ha tutto l’interesse che ora il lavoratore faccia fruttare le sue competenze a favore del locale dove lavora. Tantissimi giovani cercano forse una figura che faccia loro da mentore, che li accompagni nella professione e li istruisca a dovere, ma non vogliono realmente fare lavorare per sempre dietro al bancone o servire ai tavoli, preferiscono aprire un locale tutto loro o evolvere nel settore con qualche altra mansione. Così il datore di lavoro si ritroverà con del personale in meno, e un lavoro tutto da ricominciare. Molti imprenditori cercano però dei lavoratori già abbastanza capaci, con poche pretese e che siano interessati solo a fare la stagione, perché a conti fatti è un minor investimento di fronte a possibili delusioni. Si sa però, che la botte piena e la moglie ubriaca, sembra una frase fatta nata apposta per il ristoratore…

Il pagamento però deve esserci: non si lavora gratis
È anche vero che, per far pronte a una mancanza di personale sempre più ingente, proprio per via delle paghe troppo basse, molti imprenditori appendono insegne e cartelli di “ricerca personale” a volte imbarazzanti. In particolare quando si accompagna alla parola “esperto”. Voi entrereste mai in un locale alla ricerca di personale esperto? Quindi chi ci lavora in quel momento non lo è?
Francesco Sanapo titolare di Ditta Artigianale sa bene che il lavoro del barista non è solo una semplice occupazione e si è espresso nei giorni scorsi appellandosi ad un cambio di rotta da parte delle istituzioni.
Francesco è uno dei pionieri della caffetteria di qualità in Italia ma è anche un formatore, un pluricampione italiano del campionato Baristi (sesto al mondo) e di assaggio e un sostenitore accanito del giusto compenso per tutti gli operatori della filiera. E’ però prima di ogni altra cosa un barista, e ci tiene a sottolinearlo, perchè è da lì che è nata la sua passione e la sua grande curiosità per la materia.

“L’attività del barista è molto dura – specifica Francesco – perché comporta sacrifici enormi. Prima di fare questo lavoro è necessario che i giovani si rendano conto che stare dietro al bancone oppure servire ai tavoli significa dover rinunciare a molte festività e alla maggior parte dei weekend, se non tutti. Questo è già frustrante, se si considera poi che i sacrifici non vengono pagati in maniera corretta, è un gioco che non vale più la candela. Il turismo è uno dei settori simboli dell’Italia, ma purtroppo non siamo più noi datori di lavoro a poter trovare una soluzione di comune accordo fra stipendi e tasse da pagare, qui serve una soluzione politica, e in fretta”.