Scienza

L’acidità nel caffè? Non dipende dagli acidi!

L’acidità in un caffè dipende da diversi aspetti, ci sono però alcune ricerche che ora ci dimostrano l’origine della percezione di questo gusto

Abbiamo già visto quanto l’acidità nel caffè sia un argomento ampiamente discusso e alquanto controverso, soprattutto quando ha a che fare con le preferenze di gusto personale e l’impatto che su di esse esercita l’influenza culturale da cui si proviene. L’acidità in un caffè proviene da numerosi aspetti che hanno a che fare con la lavorazione del prodotto, dalla fermentazione del frutto all’estrazione in tazza. Ci sono però alcune ricerche che ora ci dimostrano l’origine della percezione di questo gusto, evidenziando che non esiste una precisa correlazione tra acidità percepita e quantità di acidi presenti o livello di PH nel caffè. Perlomeno nulla che possa essere scientificamente provato, almeno finora…

Cosa intendiamo per acidità



Quando si tratta di caffè, l’argomento acidità è spesso frutto di ampio dibattito, ma soprattutto territorio di gusti e preferenze soggettive. Anche le opinioni personali su questa materia tendono a prevalere su ciò che può essere dimostrato a livello empirico. Questo probabilmente anche per il fatto che sul tema non esistono ancora delle evidenze scientifiche che possano fare un po’ luce in mezzo a tanti punti interrogativi. Ecco arrivare quindi una ricerca a scardinare quelle che sembravano consolidate certezze rispetto alla valutazione sensoriale dell’acidità e ad alcune pratiche comuni volte a migliorare le abilità a riconoscerne le caratteristiche peculiari.

Da uno studio pubblicato di recente sotto la guida di Coffeemind in Danimarca, emergono alcuni dati sorprendenti che riguardano la percezione dell’acidità complessiva e l’impatto su questa del numero totale di acidi organici presenti nella bevanda. Già perché lo studio è stato condotto prendendo come riferimento non solo la quantità di acidi all’interno del chicco, ma anche quelli estratti (utilizzando 3 diversi livelli di tostatura e una french press per l’estrazione). Vedi tabella


Un principio che trova tutti d’accordo all’interno della comunità dei caffè specialty, è il fatto di asserire che sia la complessità dell’acidità a definirne e sancirne la qualità complessiva. Alla complessità dell’acidità corrispondono normalmente valutazioni molto alte con un conseguente punteggio finale vicino ai 90/100 all’assaggio con metodologia cupping. Ma come si può definire un’acidità complessa? Si è sempre detto (e insegnato), che la complessità di un’acidita è determinata dalla presenza contemporanea di diverse tipologie di acidi (citrico, malico, acetico, fosforico…). Lo studio in questione, prendendo come riferimento tre tipologie di caffè molto diverse tra loro per la percezione di acidità (Brasile, Kenya e Bolivia), ha invece dimostrato come le maggiori divergenze a livello di quantità di acidi presenti, provenga invece dall’acido citrico. Indovinate un po’ tra le tre in questione, quale è risultata l’origine con livelli più elevati di acidità a parità di tostatura? Uno dei caffè brasiliani. Singolare vero? Una delle origini dove l’acidità percepita risulta notoriamente più bassa, presenta una quantità di acido citrico più elevata, mentre risultano del tutto irrilevanti le differenze a livello quantitativo degli altri acidi quali malico, lattico e fosforico. Al contrario una singola origine come quella del Kenya, che a livello globale è riconosciuta dai maggiori esperti come l’esempio più sommo di acidità intensa e compelssa, non presenta un contenuto di acidi organici più elevato all’interno della bevanda.




Diversi tipi di acidità nel caffè, cosa percepiamo veramente?



Altro mito da sfatare sembra essere quello legato alla complessità degli acidi, come segnale distintivo di elevata qualità (e di conseguenza punteggio finale nel cupping). Tra le tre origini studiate infatti non sembrano esserci grosse differenze in termini di quantità di acidi organici


estratti (anzi come già detto il livello di acido citrico più elevato è risultato essere nel caffè brasiliano). Da qui viene spontaneo chiedersi se avrà ancora senso allenarsi a livello sensoriale sulle diverse tipologie di acidi come si fa in molti programmi di formazione sensoriale.

Degli acidi organici rielvati infatti gli unici veramente distinguibili da un panel di esperti nella bevanda risultavano essere quello citrico e quello acetico (che infatti è percepito più grazie all’attività retronasale che dalle papille gustative del palato). Dell’acido citrico invece ciò maggiormente viene percepita è l’intensità di questa sensazione più che la sua “qualità”.

Acidità percepita ed acidità contenuta

La domanda a questo punto sorge spontanea: ma quindi quando percepiamo un’acidità complessa, se non è determinata da una ricchezza di “ingredienti” acidi, da cosa altro può venir definita? Bisognerà attendere ulteriori studi e ricerche sull’argomento per avere una risposta certa, ma se vale il principio evidenziato per l’acido acetico, non sembra troppo lontano dalla realtà ipotizzare che gran parte della qualità percepita possa derivare dall’attività retronasale. Del resto anche per la percezione del dolce e dell’amaro è stato rilevato il ruolo decisivo dell’olfatto (o retrolfatto/retrogusto), perché l’acidità dovrebbe fare eccezione?





fonte:https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2665927123000539?via%3Dihub